Volontariato nelle Filippine, l’avventura di Massimo
Mi ritrovo in macchina, una sera di novembre, recapitato a destinazione come un pacco a Natale. Dal finestrino, nonostante la notte abbia ormai coperto di oscurità il paesaggio circostante, riesco ad intravedere tra ombre e sagome, distese di campi destinati a piantagioni di canna da zucchero. Le uniche fonti di illuminazione provengono dai terreni prosperosi che vengono incendiati per essere preparati alla nuova semina, dalle finestre in bamboo e simil-vetro di case in lontananza, dalle ciminiere delle raffinerie di zucchero che sprigionano fumo bianco dalle loro sommità, dalla calda luce dei fari delle tante motociclette e scooter che affollano le strade urbane ed extraurbane e dal satellite che, grazioso e candido, compariva dal lunotto posteriore della macchina. Era la Luna, che spiccava tra le nuvole di fumo.
Il tempo scorre, le strade si fanno sempre più strette e il paesaggio, fino ad allora prevalentemente di campagna, comincia a trasformarsi in quello di una città rimasta ancora molto arretrata nel tempo. Radicata nelle sue economie prevalentemente agrarie e di piccolo commercio: bancarelle di frutta e verdura, piccoli negozi di artigianato locale, il mercato centrale, farmacie sparse a macchia di leopardo, stand ambulanti e gli immancabili “food truck”, in realtà semplici carretti a rotelle con una friggitrice pronti a soddisfare i palati più golosi con le loro sfiziosità, si prepara ad abbassare le serrande e prepararsi alla notte. La città si è assopita.
Entro in città accolto dal cartello “Welcome to Bais City”, una cittadina delle Filippine, non molto popolosa (circa 75000 abitanti) che si trova in un’isola appartenente alla regione del Visayas collocata al centro dell’arcipelago. Si contraddistingue per la sua frenesia mattutina, centinaia di studenti, giovani e giovanissimi, che si incamminano verso le rispettive scuole di appartenenza, “trycicicle” (tipico mezzo di trasporto persone a motore), che affollano strade e stradine e donne e uomini che si preparano ad affrontare un’altra nuova giornata terribilmente calda. La situazione si calma finita l’ora di pranzo, dopo che i food truck, sparsi per la città, sono stati selvaggiamente assaltati da branchi di studenti di tutte le età, all’incirca verso le 12:30/13, i primi negozietti cominciano ad abbassare le serrande e chiudere la porta ed anche il meteo comincia a cambiare pelle, verso pomeriggio inoltrato le probabilità di precipitazioni sfiorano l’80%, ma se sei fortunato quel giorno non pioverà.
Dalla finestra della mia cameretta al terzo piano del college LCC (La Consolacion College) verso le 5.40 del pomeriggio scorgo un tramonto che man mano si fa sempre più ricco di colori lasciandomi ogni giorno a bocca aperta.
Ho trascorso proprio in questo college il mio volontariato nelle Filippine di 182 giorni, 6 mesi precisi, dove insegnavo italiano a ragazzi dai 13 fino ai 17 anni. Parallelamente all’insegnamento della lingua prendevo parte a campagne di sensibilizzazione sociale e ambientale che mi hanno gratificato di più a livello personale: stare a contatto con bambini e ragazzi di comunità povere/disagiate, giocare con loro, chiacchierarci, fare due tiri a canestro, condividere una merenda insieme, tutte attività che rompevano la loro routine settimanale e donavano loro un sorriso a 32 denti.
Un giorno ti trovavi a ripulire porzioni di foreste inquinate da migliaia di rifiuti di plastica e l’altro giorno, all’alba, a piantare mangrovie immerso in un paesaggio che suggestivo è dir poco. Insegni, impari, insegni, impari, sei dentro un circolo virtuoso che poi diventa vizioso perché non ne puoi più fare a meno, quel vortice che ti porta ad assaggiare cibi mai visti o immaginati in tutta la tua vita, ti ritrovi in situazioni scomode anche se il più delle volte comiche, sconosciuti che ti chiedono selfie improvvisati mentre mangi un comodo panino al McDonald’s o mentre passeggi nel centro commerciale credendoti famoso e forse anche ricco, cani e gatti randagi diventano parte della tua nuova quotidianità, comici a stringere amicizie anche con i muri, quei muri che di li a poco non avrò mai più rivisto e di cui sono certo sentirò nostalgia.
Quel sentimento di malinconia misto alla gioia di ritornare a casa si faceva sempre più forte dentro di me: era arrivato il momento di abbandonare quella mia cameretta al terzo piano, vista tramonto, che ormai era diventata un’estensione materiale della mia “casa dolce casa” in Italia e dire addio, o arrivederci, alle Filippine. Tutto all’improvviso.
Come un ladro che viene di notte anche in quella piccola realtà di una cittadina asiatica il virus ha fatto la sua incursione. Stiamo parlando del nostro amico invisibile simbiotico che si chiama Corona virus (Covid-19). Ci ha colto alla sprovvista, impreparati, è stato il mio ultiumatum, il sigillo che ha messo la parola Fine alla mia attività.
Mi mancherà parlare in inglese, mi mancheranno le docce fredde, fatte a risparmio, con quell’acqua così piena di calcare che se provavo a lavarmi gli occhiali le lenti diventavano color perla, mi mancherà sentire la fatica di lavare i vestiti a mano nell’area lavanderia adiacente alla cucina che, regolarmente tre volte al giorno (colazione, pranzo e cena), proprio come una ricetta medica, sfornava quantità di riso industriali accompagnate da quella fragranza di aglio fritto che invadeva irresistibile tutti i corridoi.
Ciao Filippine, ciao Bais, grazie per la tua fedeltà, per la tua amicizia, e per avermi accompagnato lungo questo viaggio indimenticabile.
Massimo Scandurra